Dopo tanto girarci intorno, dunque, vediamo come, secondo
me, potrebbero essersi svolti i fatti.
Mi rendo conto che lo scenario che intendo ipotizzare apparirà senza dubbio fantastico (e
come potrebbe non esserlo), ma non tema il mio assiduo lettore, la preoccupazione di fondo
è e sarà comunque sempre quella di mantenere il più possibile i piedi ben saldi a
terra, evitando accuratamente la ricerca del sensazionale fine a se stesso e la caccia
allo scoop.
Il nostro cammino toccherà molte regioni e si estenderà per un arco temporale di alcuni
millenni: un viaggio di grande respiro, dunque, indispensabile per chi voglia mettersi in
ricerca di una qualche spiegazione della diffusione tra le culture del Vicino Oriente (e
non solo tra quelle) dei racconti del Diluvio.Il nostro racconto inizia circa 5500 anni prima della nascita di Cristo.
La terribile ultima glaciazione era ormai alle spalle e le comunità preistoriche, che
avevano imparato non solo a sopravvivere ma addirittura a convivere con il freddo intenso
e le avverse condizioni climatiche, cominciavano di nuovo a prosperare e, grazie alle più
favorevoli condizioni di vita, a crescere numericamente.
Due gruppi in particolare meritano la nostra attenzione: il primo occupa le sponde
meridionali di un lago situato al centro della depressione attualmente riempita dalle
acque del Mar Nero. Il sostentamento della tribù proveniva non solo dalle battute di
caccia, che avevano egregiamente sostenuto il gruppo lungo tutti quegli terribili anni di
intenso gelo, ma anche da nuove più comode strade; grazie al clima mite, infatti, il
terreno fertile e l'abbondanza di acqua consentivano le prime coltivazioni ed il lago
offriva abbondanza di cibo: piccole imbarcazioni solcavano le sue acque alla ricerca dei
banchi di pesce. Il secondo gruppo lo incontriamo più a sud-est, tra le vallate dei Monti
Zagros circondate da alte cime vulcaniche: già si era diffusa l'arte
dell'addomesticamento (capre, pecore, asini selvatici) e la tecnologia stava facendo i
primi passi con l'introduzione di utensili di ossidiana che soppiantavano i vecchi
attrezzi di pietra scheggiata.
Ambedue i gruppi si basavano su un sistema tribale ormai collaudato, con la presenza di un
capotribù che racchiudeva le funzioni di re e sacerdote per il suo clan. Differenti,
proprio perché ben diverse erano le condizioni ambientali, erano le religiosità che
animavano i due gruppi: più tranquilla e agreste quella del Mar Nero, più arcigna e dura
quella dei Monti Zagros.
Se gli dei del lago, a volte irati ma per breve tempo, e quelli sempre munifici della
terra segnavano le vicende di un gruppo, l'altro aveva interlocutori divini che si
palesavano con terribili eruzioni vulcaniche, parlavano con la voce rombante del tuono e
scuotevano con forza la terra e le fragili capanne di frasche e di pelli. A parte le
periodiche sfuriate degli dei, opportunamente placate con l'offerta dei prodotti del
proprio lavoro, la vita dei due clan scorreva tranquilla e, ad ogni generazione, aumentava
il bagaglio culturale, religioso e tecnologico dei due gruppi tribali. Ma un repentino e
drammatico sconvolgimento era alle porte.
Una giorno, trafelato, un cacciatore giunse al villaggio sulle rive del lago portando la
notizia sconvolgente di un evento terribile: gli dei avevano aperto le chiuse che dovevano
contenere le acque del cielo e del mare e queste, senza più freni, si riversavano sulla
terra sommergendo ogni cosa. Invano le tribù che occupavano la zona più a ovest della
vallata avevano tentato la fuga: solo pochi superstiti si erano salvati abbandonando in
gran fretta la pianura e arrampicandosi sulle montagne circostanti.
Già conosciamo (vedi Il Diluvio per la Scienza)
cosa era successo: la diga naturale che separava la vallata dal mare aveva ceduto sotto i
ripetuti assalti delle onde e le acque del Mediterraneo si affrettavano in massa a
riempire quell'invaso naturale precipitando dall'alto di colossali cascate. Conosciamo
anche che non fu un lento avanzare, ma un irrompere rapido e violento che nel volgere di
alcune settimane portò le acque salate a occupare completamente la fertile valle, e
possiamo ragionevolmente supporre che questa rapida conquista fu accompagnata dal
repentino mutamento delle condizioni atmosferiche. L'improvviso aumento
dellevaporazione, in parte riconducibile ai normali fenomeni di evaporazione delle
acque del bacino che si andava formando, ma incrementato in modo decisivo dalla intensa
polverizzazione dellacqua in caduta dalle cascate, si traduceva in piogge
torrenziali e violentissime e in dense nubi stagnanti su quella che un giorno era una
ridente vallata.
L'unica possibilità di fuga era rappresentata dai monti a sud del lago, alla disperata
ricerca di una nuova e sicura collocazione per il villaggio. Ed è qui che la nostra
comunità si diresse, portando con sé quelle poche cose che riuscì a raccogliere sotto
l'incalzare delle acque salate, riproponendosi un ritorno non appena la furia distruttrice
degli dei dell'acqua si fosse placata. Ma questo ritorno non avvenne mai: quasi certamente
fu tentato, ma l'immensa distesa di acqua salata che aveva preso il posto della ridente
vallata e del pescoso lago non consentiva di tentare un nuovo insediamento. Rimase
sicuramente, di tutta questa vicenda, una traccia indelebile nei racconti e nelle
tradizioni tribali: erano stati troppo drammatici e sconvolgenti gli avvenimenti che il
clan aveva vissuto per non meritare di essere tramandati alle generazioni successive.
L'umanità, però, non aveva ancora trovato il modo, con la scrittura, di fissare in modo
permanente i ricordi e dunque, inevitabilmente, i racconti erano destinati a subire
profonde modificazioni e integrazioni con altre tradizioni, se non addirittura l'oblio.
Ben difficilmente, dunque, possiamo considerare le traversie di questa tribù come gli
elementi ispiratori delle saghe e dei racconti epici relativi al Diluvio: troppo tempo
separa l'epoca di tali avvenimenti da quella in cui l'umanità cominciò a sviluppare
l'arte della scrittura. Mi sembrano decisamente lunghi gli oltre 2000 anni che separano
gli eventi del Mar Nero dai primi rudimentali segni incisi con il cuneo nell'argilla della
piana di Sumer (è lì che la scrittura ha la sua origine), difficilmente colmabili
ricorrendo ai miti tribali ed alle leggende tramandate di padre in figlio, anche
ipotizzando l'introduzione di riti religiosi e propiziatori in grado di prolungarne nel
tempo la memoria.
Nello stesso periodo anche il gruppo dei monti Zagros aveva grossi problemi da risolvere;
non è ben chiaro cosa possa avere spinto questa comunità a migrare, forse una serie di
eruzioni più violente delle altre o forse un drammatico mutamento delle condizioni
climatiche, ma anch'essa dovette abbandonare il villaggio e andarsene in tutta fretta.
Mi affascina molto pensare a un incontro tra questi gruppi
ormai senza patria, bruscamente scacciati dai loro paradisi ai quali sarebbe stato per
sempre precluso il ritorno. E mi piace pensarlo non tanto per ragioni romantiche e
romanzesche, ma per spiegare con questo incontro la rapida accelerazione nella civiltà e
nella tecnologia che caratterizzò il nuovo popolo che si affacciò sulla pianura dei due
grandi fiumi, il Tigri e l'Eufrate. Soltanto un rimescolamento genetico, a mio parere,
può consentire l'emergere di individui nuovi, la cui apparizione sarebbe altrimenti
preclusa (o perlomeno altamente improbabile) all'interno di un gruppo geneticamente chiuso
qual era l'isolata comunità preistorica.
E soltanto l'unione di tecnologie così diverse quali quelle che caratterizzavano la
comunità del lago e quella dei monti poté rapidamente portare a nuove e più complesse
abilità, prima tra tutte la capacità di realizzare oggetti di terracotta, seguita da
quelle ben più importanti della lavorazione dei metalli e dell'invenzione della
scrittura: abbandonata l'età della pietra, la nuova comunità si accingeva ad entrare in
quella del rame.
Certamente le tradizioni ed i racconti epici delle due tribù (e al posto d'onore tra
questi l'epopea di una immane inondazione in grado di cancellare ogni essere vivente
risparmiando solamente pochi eletti), anche se accomunati e per questo rinforzati da una
nuova veste narrativa, non sarebbero ugualmente sopravvissuti, a meno che qualcosa nei
secoli futuri non avesse di nuovo terribilmente riportato all'attualità quei vaghi
racconti di acque travolgenti e distruttrici quando ormai erano quasi completamente
spariti dalla memoria collettiva.
Dal punto di vista sociale questa fusione delle
due comunità deve essere considerata un fatto graduale e certamente non tranquillo e non
solo perché l'unificazione comportava la scelta di un unico capo, accompagnata da
inevitabili e cruente lotte per il potere: altre scelte altrettanto radicali, infatti,
incombevano. L'abbandono di un modello di vita tutto sommato sedentario, qual era quello
delle due tribù prima degli sconvolgimenti che avevano loro imposto la fuga, favorì il
presentarsi di nuove tensioni sociali, probabilmente innescate dall'élite dei cacciatori,
che vedeva crescere di nuovo la propria importanza per il clan dopo che questa era stata
messa in secondo piano dalle attività dell'allevamento e della coltivazione e possiamo
supporre che proprio questo fronte comune, trasversale ai due gruppi, finì con il
costituire una potente spinta aggregante. Giunti a valle, infatti, di fronte alla pianura
paludosa che si stendeva a perdita d'occhio verso sud, era indispensabile prendere una
decisione fondamentale per il futuro del nuovo clan: continuare il cammino verso sud e
affrontare le paludi, forti delle conoscenze nautiche tramandate dalla gente del lago,
oppure ritornare verso nord, sui monti che avevano fino a quel momento costituito la loro
patria.
Anche dal punto di vista religioso l'unificazione presentava certamente alcuni nodi da
sciogliere: sicuramente si poneva la necessità della scelta di un panteon comune, magari
semplicemente allargando quello già presente in ogni clan, ma tentando anche una
unificazione delle divinità quando possedevano le stesse caratteristiche. Più semplice
di tutte, probabilmente, fu l'unificazione delle divinità astrali, identificabili
facilmente con le luci più appariscenti del cielo: Nanna, il dio della luna e del sapere,
padre di Utu, il dio del sole e della giustizia, e la dea Inanna (chiamata anche Ishtar,
la biblica Astarte) identificata con la stella del mattino (il pianeta Venere), divinità
della bellezza e della fertilità, ma anche divinità della lotta.
Nell'immagine a sinistra sono raffigurati i simboli con i quali nelle iscrizioni sumere
venivano indicate le tre divinità: (1) Nanna, (2) Utu e (3) Inanna.
Accanto a queste divinità astrali "visibili" possiamo collocare altri dei, che
popoleranno il panteon della popolazione di Sumer, nati dal cammino di riflessione
teologica che sempre è stato presente nell'umanità e i cui tratti anche oggi possiamo
scorgere nei differenti modi di vivere il senso religioso: An, il dio principale,
disinteressato delle vicende umane, che avrà a Uruk nel grande tempio E-anna (= casa di
An) il suo luogo principale di culto, raffigurato nei testi cuneiformi con il simbolo di
una stella; Enlil, signore del vento e della tempesta (chiamato Ea dagli Akkadi, dopo
l'ascesa al trono di Sargon intorno al 2400 a.C.) e signore potente del mondo in cui
viviamo, venerato a Nippur; Enki, signore dell'abisso di acqua dolce sul quale si ergeva
l'intero universo, venerato a Eridu nel tempio detto E-abzu (= casa dell'abisso),
divinità di benevolenza, di giustizia e di collaborazione tra la divinità e l'umanità.
E proprio il dio Enki poteva essere in grado di fare da ponte tra le religiosità di due
clan che avevano ormai imparato che la vita stessa era indissolubilmente legata all'acqua
dolce, ma a questo dio buono e favorevole era necessario affiancare e contrapporre altre
divinità, almeno per rendersi ragione dell'improvviso cedimento della sua protezione e
del terribile destino che li aveva strappati dai loro paradisi: il cammino della
religiosità non è mai astratto, ma segue e interpreta le vicende umane, sempre alla
ricerca della spiegazione ultima degli eventi.
Naturalmente queste considerazioni inseguono l'idea di un contatto e di una fusione tra il
clan del Mar Nero e quello in fuga dai Monti Zagros, ma nell'economia del mio racconto
questa fusione non è indispensabile: può apportare certamente elementi significativi,
può essere antropologicamente affascinante, ma, ahimè, è ben lungi dall'essere
storicamente provata; al contrario è di sicuro meno problematica anche dal punto di vista
storico la discesa di un popolo dai monti verso la pianura di Sumer.
Dopo aver chiuso con un'indispensabile postilla la nostra
breve digressione, torniamo ad occuparci del gruppo che avevamo lasciato alle prese con
una decisione fondamentale: ritornare sui monti che fino a quel momento avevano costituito
un rifugio tutto sommato sicuro e ricco di risorse o proseguire il cammino e occupare la
pianura che stava dinanzi. Non possiamo certo aspettarci che la scelta tra la sfida
all'ignoto ed il ritorno ad una vita ormai sperimentata (ma probabilmente non da tutti ben
accettata) possa essere stata presa con regole democratiche e accolta da tutti senza
ripensamento alcuno: è certamente più verosimile che la situazione provocò la scissione
in due distinti popoli. Distinti, ma pur sempre provenienti dal medesimo ceppo, dunque
necessariamente accomunati da profondi legami culturali, sociali e religiosi. Anche
volendo inseguire l'ipotesi dell'incontro tra il clan del lago e quello dei monti non
dobbiamo certo pensare che le composizioni dei due nuovi popoli che stavano ora nascendo
rispecchiassero le identità iniziali dei clan; è piuttosto da ipotizzare una
composizione mista, una sorta di identità trasversale che anche in questo caso ci impone
di mettere in conto l'esistenza di un profondo legame culturale e religioso tra questi due
nuovi popoli che stavano nascendo.
Nel momento in cui da quell'unico popolo sceso dai monti (sia esso il risultato della
fusione del clan del Mar Nero con quello dei Monti Zagros oppure semplicemente la
migrazione verso sud di quest'ultimo) stavano per trarre origine due nuove nazioni,
dobbiamo necessariamente dare loro un nome.
Ma se è abbastanza semplice (direi quasi obbligatorio) identificare il popolo diretto a
sud con i Sumeri, per il popolo dei monti l'identificazione è meno immediata e per
portarla a compimento utilizzeremo una fonte di origine sumerica, il poema epico
"Enmerkar e il Signore di Aratta" (è uno dei tre componimenti dell'epica sumera
che vedono Enmerkar come protagonista).
Noi non possediamo la versione originale di questo racconto epico, ma una copia in
accadico risalente alla prima metà del secondo millennio, sufficiente comunque a farci
comprendere il profondo legame tra la popolazione della pianura di Uruk e quella della
montagna, il mitico regno di Aratta: ambedue i popoli adoravano le stesse divinità ed
avevano la stessa struttura tribale, e dai documenti traspare un consolidato rapporto di
tipo commerciale. La vicenda narrata dal poema si colloca in un periodo successivo al
Diluvio, quando a Uruk regnava Enmerkar. Suo padre, il grande costruttore Meskiagkasher,
aveva portato il simulacro della dea Inanna da Aratta nel recinto sacro di Eanna a Uruk,
ed ora lui era intenzionato ad abbellirlo; la pianura non offriva grandi quantità di
legname pregiato e materiali preziosi, mentre ne sovrabbondava il regno di Aratta, sulle
montagne.
Ecco allora che un messaggero si deve scarpinare (molto probabilmente più di una volta)
tutta quanta la strada da Uruk fino al regno sui monti per annunciare che il suo re è
disposto persino ad invadere Aratta se non gli verranno forniti l'oro, l'argento e i
lapislazzuli indispensabili per la costruzione della casa della dea Inanna. Secondo il
poema epico sarà proprio per assicurarsi che il messaggero ricordi quanto dovrà riferire
che Enmerkar inventerà la scrittura sulle tavolette d'argilla.
Alla fine di questa intensa attività diplomatica si giungerà ad un accordo, che
prevederà l'invio ad Aratta di grano ed il trasporto a Uruk del legname e dei materiali
preziosi tanto desiderati.
Le vicende raccontate dal poema epico e quanto conosciamo per altre vie del regno di
Aratta ci offrono alcuni spunti che vale la pena di sottolineare:
1. la dea Inanna, la dea madre, era stata trasportata da
Aratta a Uruk, segno di una identità di culto che ben difficilmente si può spiegare se
non ricorrendo ad una identica provenienza tribale; se, infatti, il simulacro della dea
venerata a Uruk proveniva da Aratta, nello stesso luogo si doveva trovare l'origine del
popolo sumero prima della discesa nella valle tra i due fiumi. In altre parole: il popolo
di Sumer vedeva nel regno di Aratta molto più che un partner commerciale, riconoscendo
l'esistenza di un legame di sangue che si perdeva nel tempo alle origini dei due clan;
2. nella idealizzazione successiva, il regno di Aratta
diventerà il regno della ricchezza per antonomasia, il mitico paese dalle ricchezze
favolose, un vero paradiso collocato tra i monti;
3. descrivendo il viaggio del messaggero del re di Uruk il
poema (alle righe 170-171) dice:
"Cinque porte,
sei porte, sette porte attraversò
Alzò i suoi occhi
nell'avvicinarsi ad Aratta."
Sarà solo un caso la coincidenza delle sette porte per il "paradiso" di Aratta
ed i sette cieli con sette porte che la tradizione talmudica vuole per l'accesso al
Paradiso ebraico?
4. la denominazione di Aratta si trasformerà in Urartu nel
periodo assiro ed indicherà non più una tribù o un regno, ma una regione geografica. E
non si fatica molto a riconoscere in entrambe le denominazioni quei monti che la Bibbia
chiama Ararat e sui quali racconta si sia adagiata l'arca di Noè all'abbassarsi delle
acque, ma su questo argomento è necessario ritornare con più calma.
Sono trascorsi 500 anni dallinizio del
nostro racconto: dopo una lunga e non certo agevole migrazione il futuro popolo sumero
attraversa la piana paludosa del Tigri e dellEufrate e, raggiunta quella che allora
era la linea della costa, vi fonda Eridu, la sua prima città.
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