Il mio Diluvio

(Prima Parte)

Dopo tanto girarci intorno, dunque, vediamo come, secondo me, potrebbero essersi svolti i fatti.
Mi rendo conto che lo scenario che intendo ipotizzare apparirà senza dubbio fantastico (e come potrebbe non esserlo), ma non tema il mio assiduo lettore, la preoccupazione di fondo è e sarà comunque sempre quella di mantenere il più possibile i piedi ben saldi a terra, evitando accuratamente la ricerca del sensazionale fine a se stesso e la caccia allo scoop.
Il nostro cammino toccherà molte regioni e si estenderà per un arco temporale di alcuni millenni: un viaggio di grande respiro, dunque, indispensabile per chi voglia mettersi in ricerca di una qualche spiegazione della diffusione tra le culture del Vicino Oriente (e non solo tra quelle) dei racconti del Diluvio.

Il nostro racconto inizia circa 5500 anni prima della nascita di Cristo.
La terribile ultima glaciazione era ormai alle spalle e le comunità preistoriche, che avevano imparato non solo a sopravvivere ma addirittura a convivere con il freddo intenso e le avverse condizioni climatiche, cominciavano di nuovo a prosperare e, grazie alle più favorevoli condizioni di vita, a crescere numericamente.
Due gruppi in particolare meritano la nostra attenzione: il primo occupa le sponde meridionali di un lago situato al centro della depressione attualmente riempita dalle acque del Mar Nero. Il sostentamento della tribù proveniva non solo dalle battute di caccia, che avevano egregiamente sostenuto il gruppo lungo tutti quegli terribili anni di intenso gelo, ma anche da nuove più comode strade; grazie al clima mite, infatti, il terreno fertile e l'abbondanza di acqua consentivano le prime coltivazioni ed il lago offriva abbondanza di cibo: piccole imbarcazioni solcavano le sue acque alla ricerca dei banchi di pesce. Il secondo gruppo lo incontriamo più a sud-est, tra le vallate dei Monti Zagros circondate da alte cime vulcaniche: già si era diffusa l'arte dell'addomesticamento (capre, pecore, asini selvatici) e la tecnologia stava facendo i primi passi con l'introduzione di utensili di ossidiana che soppiantavano i vecchi attrezzi di pietra scheggiata.
Ambedue i gruppi si basavano su un sistema tribale ormai collaudato, con la presenza di un capotribù che racchiudeva le funzioni di re e sacerdote per il suo clan. Differenti, proprio perché ben diverse erano le condizioni ambientali, erano le religiosità che animavano i due gruppi: più tranquilla e agreste quella del Mar Nero, più arcigna e dura quella dei Monti Zagros.
Se gli dei del lago, a volte irati ma per breve tempo, e quelli sempre munifici della terra segnavano le vicende di un gruppo, l'altro aveva interlocutori divini che si palesavano con terribili eruzioni vulcaniche, parlavano con la voce rombante del tuono e scuotevano con forza la terra e le fragili capanne di frasche e di pelli. A parte le periodiche sfuriate degli dei, opportunamente placate con l'offerta dei prodotti del proprio lavoro, la vita dei due clan scorreva tranquilla e, ad ogni generazione, aumentava il bagaglio culturale, religioso e tecnologico dei due gruppi tribali. Ma un repentino e drammatico sconvolgimento era alle porte.
Una giorno, trafelato, un cacciatore giunse al villaggio sulle rive del lago portando la notizia sconvolgente di un evento terribile: gli dei avevano aperto le chiuse che dovevano contenere le acque del cielo e del mare e queste, senza più freni, si riversavano sulla terra sommergendo ogni cosa. Invano le tribù che occupavano la zona più a ovest della vallata avevano tentato la fuga: solo pochi superstiti si erano salvati abbandonando in gran fretta la pianura e arrampicandosi sulle montagne circostanti.
Già conosciamo (vedi Il Diluvio per la Scienza) cosa era successo: la diga naturale che separava la vallata dal mare aveva ceduto sotto i ripetuti assalti delle onde e le acque del Mediterraneo si affrettavano in massa a riempire quell'invaso naturale precipitando dall'alto di colossali cascate. Conosciamo anche che non fu un lento avanzare, ma un irrompere rapido e violento che nel volgere di alcune settimane portò le acque salate a occupare completamente la fertile valle, e possiamo ragionevolmente supporre che questa rapida conquista fu accompagnata dal repentino mutamento delle condizioni atmosferiche. L'improvviso aumento dell’evaporazione, in parte riconducibile ai normali fenomeni di evaporazione delle acque del bacino che si andava formando, ma incrementato in modo decisivo dalla intensa polverizzazione dell’acqua in caduta dalle cascate, si traduceva in piogge torrenziali e violentissime e in dense nubi stagnanti su quella che un giorno era una ridente vallata.
L'unica possibilità di fuga era rappresentata dai monti a sud del lago, alla disperata ricerca di una nuova e sicura collocazione per il villaggio. Ed è qui che la nostra comunità si diresse, portando con sé quelle poche cose che riuscì a raccogliere sotto l'incalzare delle acque salate, riproponendosi un ritorno non appena la furia distruttrice degli dei dell'acqua si fosse placata. Ma questo ritorno non avvenne mai: quasi certamente fu tentato, ma l'immensa distesa di acqua salata che aveva preso il posto della ridente vallata e del pescoso lago non consentiva di tentare un nuovo insediamento. Rimase sicuramente, di tutta questa vicenda, una traccia indelebile nei racconti e nelle tradizioni tribali: erano stati troppo drammatici e sconvolgenti gli avvenimenti che il clan aveva vissuto per non meritare di essere tramandati alle generazioni successive. L'umanità, però, non aveva ancora trovato il modo, con la scrittura, di fissare in modo permanente i ricordi e dunque, inevitabilmente, i racconti erano destinati a subire profonde modificazioni e integrazioni con altre tradizioni, se non addirittura l'oblio.
Ben difficilmente, dunque, possiamo considerare le traversie di questa tribù come gli elementi ispiratori delle saghe e dei racconti epici relativi al Diluvio: troppo tempo separa l'epoca di tali avvenimenti da quella in cui l'umanità cominciò a sviluppare l'arte della scrittura. Mi sembrano decisamente lunghi gli oltre 2000 anni che separano gli eventi del Mar Nero dai primi rudimentali segni incisi con il cuneo nell'argilla della piana di Sumer (è lì che la scrittura ha la sua origine), difficilmente colmabili ricorrendo ai miti tribali ed alle leggende tramandate di padre in figlio, anche ipotizzando l'introduzione di riti religiosi e propiziatori in grado di prolungarne nel tempo la memoria.
Nello stesso periodo anche il gruppo dei monti Zagros aveva grossi problemi da risolvere; non è ben chiaro cosa possa avere spinto questa comunità a migrare, forse una serie di eruzioni più violente delle altre o forse un drammatico mutamento delle condizioni climatiche, ma anch'essa dovette abbandonare il villaggio e andarsene in tutta fretta.


Mi affascina molto pensare a un incontro tra questi gruppi ormai senza patria, bruscamente scacciati dai loro paradisi ai quali sarebbe stato per sempre precluso il ritorno. E mi piace pensarlo non tanto per ragioni romantiche e romanzesche, ma per spiegare con questo incontro la rapida accelerazione nella civiltà e nella tecnologia che caratterizzò il nuovo popolo che si affacciò sulla pianura dei due grandi fiumi, il Tigri e l'Eufrate. Soltanto un rimescolamento genetico, a mio parere, può consentire l'emergere di individui nuovi, la cui apparizione sarebbe altrimenti preclusa (o perlomeno altamente improbabile) all'interno di un gruppo geneticamente chiuso qual era l'isolata comunità preistorica.
E soltanto l'unione di tecnologie così diverse quali quelle che caratterizzavano la comunità del lago e quella dei monti poté rapidamente portare a nuove e più complesse abilità, prima tra tutte la capacità di realizzare oggetti di terracotta, seguita da quelle ben più importanti della lavorazione dei metalli e dell'invenzione della scrittura: abbandonata l'età della pietra, la nuova comunità si accingeva ad entrare in quella del rame.
Certamente le tradizioni ed i racconti epici delle due tribù (e al posto d'onore tra questi l'epopea di una immane inondazione in grado di cancellare ogni essere vivente risparmiando solamente pochi eletti), anche se accomunati e per questo rinforzati da una nuova veste narrativa, non sarebbero ugualmente sopravvissuti, a meno che qualcosa nei secoli futuri non avesse di nuovo terribilmente riportato all'attualità quei vaghi racconti di acque travolgenti e distruttrici quando ormai erano quasi completamente spariti dalla memoria collettiva.

Dal punto di vista sociale questa fusione delle due comunità deve essere considerata un fatto graduale e certamente non tranquillo e non solo perché l'unificazione comportava la scelta di un unico capo, accompagnata da inevitabili e cruente lotte per il potere: altre scelte altrettanto radicali, infatti, incombevano. L'abbandono di un modello di vita tutto sommato sedentario, qual era quello delle due tribù prima degli sconvolgimenti che avevano loro imposto la fuga, favorì il presentarsi di nuove tensioni sociali, probabilmente innescate dall'élite dei cacciatori, che vedeva crescere di nuovo la propria importanza per il clan dopo che questa era stata messa in secondo piano dalle attività dell'allevamento e della coltivazione e possiamo supporre che proprio questo fronte comune, trasversale ai due gruppi, finì con il costituire una potente spinta aggregante. Giunti a valle, infatti, di fronte alla pianura paludosa che si stendeva a perdita d'occhio verso sud, era indispensabile prendere una decisione fondamentale per il futuro del nuovo clan: continuare il cammino verso sud e affrontare le paludi, forti delle conoscenze nautiche tramandate dalla gente del lago, oppure ritornare verso nord, sui monti che avevano fino a quel momento costituito la loro patria.Raffigurazione delle divinità astrali sumere
Anche dal punto di vista religioso l'unificazione presentava certamente alcuni nodi da sciogliere: sicuramente si poneva la necessità della scelta di un panteon comune, magari semplicemente allargando quello già presente in ogni clan, ma tentando anche una unificazione delle divinità quando possedevano le stesse caratteristiche. Più semplice di tutte, probabilmente, fu l'unificazione delle divinità astrali, identificabili facilmente con le luci più appariscenti del cielo: Nanna, il dio della luna e del sapere, padre di Utu, il dio del sole e della giustizia, e la dea Inanna (chiamata anche Ishtar, la biblica Astarte) identificata con la stella del mattino (il pianeta Venere), divinità della bellezza e della fertilità, ma anche divinità della lotta.
Nell'immagine a sinistra sono raffigurati i simboli con i quali nelle iscrizioni sumere venivano indicate le tre divinità: (1) Nanna, (2) Utu e (3) Inanna.
Accanto a queste divinità astrali "visibili" possiamo collocare altri dei, che popoleranno il panteon della popolazione di Sumer, nati dal cammino di riflessione teologica che sempre è stato presente nell'umanità e i cui tratti anche oggi possiamo scorgere nei differenti modi di vivere il senso religioso: An, il dio principale, disinteressato delle vicende umane, che avrà a Uruk nel grande tempio E-anna (= casa di An) il suo luogo principale di culto, raffigurato nei testi cuneiformi con il simbolo di una stella; Enlil, signore del vento e della tempesta (chiamato Ea dagli Akkadi, dopo l'ascesa al trono di Sargon intorno al 2400 a.C.) e signore potente del mondo in cui viviamo, venerato a Nippur; Enki, signore dell'abisso di acqua dolce sul quale si ergeva l'intero universo, venerato a Eridu nel tempio detto E-abzu (= casa dell'abisso), divinità di benevolenza, di giustizia e di collaborazione tra la divinità e l'umanità.
E proprio il dio Enki poteva essere in grado di fare da ponte tra le religiosità di due clan che avevano ormai imparato che la vita stessa era indissolubilmente legata all'acqua dolce, ma a questo dio buono e favorevole era necessario affiancare e contrapporre altre divinità, almeno per rendersi ragione dell'improvviso cedimento della sua protezione e del terribile destino che li aveva strappati dai loro paradisi: il cammino della religiosità non è mai astratto, ma segue e interpreta le vicende umane, sempre alla ricerca della spiegazione ultima degli eventi.
Naturalmente queste considerazioni inseguono l'idea di un contatto e di una fusione tra il clan del Mar Nero e quello in fuga dai Monti Zagros, ma nell'economia del mio racconto questa fusione non è indispensabile: può apportare certamente elementi significativi, può essere antropologicamente affascinante, ma, ahimè, è ben lungi dall'essere storicamente provata; al contrario è di sicuro meno problematica anche dal punto di vista storico la discesa di un popolo dai monti verso la pianura di Sumer.


Dopo aver chiuso con un'indispensabile postilla la nostra breve digressione, torniamo ad occuparci del gruppo che avevamo lasciato alle prese con una decisione fondamentale: ritornare sui monti che fino a quel momento avevano costituito un rifugio tutto sommato sicuro e ricco di risorse o proseguire il cammino e occupare la pianura che stava dinanzi. Non possiamo certo aspettarci che la scelta tra la sfida all'ignoto ed il ritorno ad una vita ormai sperimentata (ma probabilmente non da tutti ben accettata) possa essere stata presa con regole democratiche e accolta da tutti senza ripensamento alcuno: è certamente più verosimile che la situazione provocò la scissione in due distinti popoli. Distinti, ma pur sempre provenienti dal medesimo ceppo, dunque necessariamente accomunati da profondi legami culturali, sociali e religiosi. Anche volendo inseguire l'ipotesi dell'incontro tra il clan del lago e quello dei monti non dobbiamo certo pensare che le composizioni dei due nuovi popoli che stavano ora nascendo rispecchiassero le identità iniziali dei clan; è piuttosto da ipotizzare una composizione mista, una sorta di identità trasversale che anche in questo caso ci impone di mettere in conto l'esistenza di un profondo legame culturale e religioso tra questi due nuovi popoli che stavano nascendo.
Nel momento in cui da quell'unico popolo sceso dai monti (sia esso il risultato della fusione del clan del Mar Nero con quello dei Monti Zagros oppure semplicemente la migrazione verso sud di quest'ultimo) stavano per trarre origine due nuove nazioni, dobbiamo necessariamente dare loro un nome.
Ma se è abbastanza semplice (direi quasi obbligatorio) identificare il popolo diretto a sud con i Sumeri, per il popolo dei monti l'identificazione è meno immediata e per portarla a compimento utilizzeremo una fonte di origine sumerica, il poema epico "Enmerkar e il Signore di Aratta" (è uno dei tre componimenti dell'epica sumera che vedono Enmerkar come protagonista).
Noi non possediamo la versione originale di questo racconto epico, ma una copia in accadico risalente alla prima metà del secondo millennio, sufficiente comunque a farci comprendere il profondo legame tra la popolazione della pianura di Uruk e quella della montagna, il mitico regno di Aratta: ambedue i popoli adoravano le stesse divinità ed avevano la stessa struttura tribale, e dai documenti traspare un consolidato rapporto di tipo commerciale. La vicenda narrata dal poema si colloca in un periodo successivo al Diluvio, quando a Uruk regnava Enmerkar. Suo padre, il grande costruttore Meskiagkasher, aveva portato il simulacro della dea Inanna da Aratta nel recinto sacro di Eanna a Uruk, ed ora lui era intenzionato ad abbellirlo; la pianura non offriva grandi quantità di legname pregiato e materiali preziosi, mentre ne sovrabbondava il regno di Aratta, sulle montagne.
Ecco allora che un messaggero si deve scarpinare (molto probabilmente più di una volta) tutta quanta la strada da Uruk fino al regno sui monti per annunciare che il suo re è disposto persino ad invadere Aratta se non gli verranno forniti l'oro, l'argento e i lapislazzuli indispensabili per la costruzione della casa della dea Inanna. Secondo il poema epico sarà proprio per assicurarsi che il messaggero ricordi quanto dovrà riferire che Enmerkar inventerà la scrittura sulle tavolette d'argilla.
Alla fine di questa intensa attività diplomatica si giungerà ad un accordo, che prevederà l'invio ad Aratta di grano ed il trasporto a Uruk del legname e dei materiali preziosi tanto desiderati.
Le vicende raccontate dal poema epico e quanto conosciamo per altre vie del regno di Aratta ci offrono alcuni spunti che vale la pena di sottolineare:
1. la dea Inanna, la dea madre, era stata trasportata da Aratta a Uruk, segno di una identità di culto che ben difficilmente si può spiegare se non ricorrendo ad una identica provenienza tribale; se, infatti, il simulacro della dea venerata a Uruk proveniva da Aratta, nello stesso luogo si doveva trovare l'origine del popolo sumero prima della discesa nella valle tra i due fiumi. In altre parole: il popolo di Sumer vedeva nel regno di Aratta molto più che un partner commerciale, riconoscendo l'esistenza di un legame di sangue che si perdeva nel tempo alle origini dei due clan;
2. nella idealizzazione successiva, il regno di Aratta diventerà il regno della ricchezza per antonomasia, il mitico paese dalle ricchezze favolose, un vero paradiso collocato tra i monti;
3. descrivendo il viaggio del messaggero del re di Uruk il poema (alle righe 170-171) dice:
            "Cinque porte, sei porte, sette porte attraversò
            Alzò i suoi occhi nell'avvicinarsi ad Aratta.
"
Sarà solo un caso la coincidenza delle sette porte per il "paradiso" di Aratta ed i sette cieli con sette porte che la tradizione talmudica vuole per l'accesso al Paradiso ebraico?
4. la denominazione di Aratta si trasformerà in Urartu nel periodo assiro ed indicherà non più una tribù o un regno, ma una regione geografica. E non si fatica molto a riconoscere in entrambe le denominazioni quei monti che la Bibbia chiama Ararat e sui quali racconta si sia adagiata l'arca di Noè all'abbassarsi delle acque, ma su questo argomento è necessario ritornare con più calma.

Sono trascorsi 500 anni dall’inizio del nostro racconto: dopo una lunga e non certo agevole migrazione il futuro popolo sumero attraversa la piana paludosa del Tigri e dell’Eufrate e, raggiunta quella che allora era la linea della costa, vi fonda Eridu, la sua prima città.

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